Se n’è andato Gaetano Anzalone, presidente della Roma dal 1971 al 1979: aveva quasi 88 anni, essendo nato nella Capitale il 5 ottobre 1930. Per ricordarlo ripubblichiamo un’intervista fattagli di persona per il sito RomaPost.it nel settembre 2014, probabilmente l’ultima della sua vita, nata da una lunghissima chiacchierata nella sua casa-studio, vicino via Cortina d’Ampezzo, in compagnia di un figlio e di una nipote.
«Sono uscito dalla Roma mezzo morto, anzi… morto per trequarti. Per due o tre anni non ho più fatto nulla, poi mi sono rimesso a lavorare». A oltre 35 anni dall’addio alla società giallorossa sono ancora profonde amarezza e sofferenza in Gaetano Anzalone, costruttore edile capitolino, presidente della Roma dal 1971 al 1979, anno in cui quando lasciò in lacrime il timone a Dino Viola. Nella sua elegante casa dalle parti di via Cortina d’Ampezzo, l’ex patron romanista, 84 anni e mente lucida, ci racconta quell’epoca, non senza qualche sospiro, con la sua caratteristica erre moscia: «Mi sono ripreso, paradossalmente, proprio grazie alla Roma: mi ero fatto la fama di una persona che non capiva così tanto di calcio, ma onesta. Così un tifoso romanista molto ricco decise di darmi un terreno all’Eur per costruirci quattro edifici. Siamo diventati soci per una ventina d’anni e ho potuto riprendermi. Non avrei mai pensato che il fatto di essere stato presidente della Roma potesse aiutarmi. È stata una sorta di ricompensa».
Anzalone è ricordato come il presidente della “Rometta”, una squadra alle prese con bilanci risicati e rendimento da bassa classifica. Eppure la sua squadra, con Liedholm in panchina, raggiunse un terzo posto, nel 1975, che mancava da vent’anni e ad Anzalone va il merito di aver costruito il centro sportivo di Trigoria, di aver avviato un moderno merchandising giallorosso (con la creazione del mitico lupetto disegnato da Gratton) in un’epoca pioneristica e di aver preso, soffiandolo alla Juventus, Roberto Pruzzo, il bomber per antonomasia tanto amato dai tifosi. Chiacchierandoci per un paio d’ore scopriamo un uomo onesto che, nel mondo del pallone, si è trovato spiazzato da colpi bassi, agguati e tanti tradimenti. «Mi sarebbe piaciuto vincere qualcosa senza fregare nessuno – ci spiega – invece ho capito altre cose».
Ma dove nasce la passione per il calcio di Anzalone?
«Nasce sui campi di periferia, mi piaceva molto giocare, ma non ero granché. Feci esperienza alla Star e poi c’è stata l’avventura con l’Ostiense, che facemmo giocare nel campo accanto alla casa in cui per venticinque anni, con alcuni amici, abbiamo aiutato tanti ragazzi orfani e disagiati, figli della Seconda guerra mondiale (nel centro San Tarcisio, fondato da Anzalone nel 1953, n.d.r.)».
Quando ha iniziato a lavorare nella Roma?
«Entrai subito dopo la colletta del Sistina (nel dicembre 1964, n.d.r.) come dirigente insieme ai fratelli Marchini (Alfio e Alvaro, n.d.r.). Entrai nella Roma grazie a Walter Crociani, detto il ‘Croc’. Sin dall’inizio ho avuto attenzione per il settore giovanile».
A proposito di Alvaro Marchini, cosa ricorda della cessione di Capello, Landini e Spinosi alla Juve, nel 1970?
«Fu un errore da parte sua, furono svenduti. A me non disse niente nonostante fossi il suo uomo di fiducia. Una settimana prima della cessione mi aveva garantito che non li avrebbe lasciati andare. Landini e Spinosi li avevo presi io su consiglio di Crociani per 15 milioni, che pagai di tasca mia. Marchini doveva fare una grande Roma e invece ha venduto quei tre alla Juve. A quel punto diedi le dimissioni».
Un anno dopo, nel 1971, lei subentrò a Marchini come presidente.
«Sì, dapprima Alfio Marchini, il fratello di Alvaro, mi propose la carica con loro alle mie spalle, ma l’idea non mi piaceva. Gli manifestai l’intenzione di comprare la Roma e l’affare si chiuse».
La prima mossa che lei fece fu riprendere in panchina Helenio Herrera, che era stato esonerato da Marchini.
«In realtà non lo avrei ripreso perché Herrera non lo volevo neanche la prima volta (nel 1968, n.d.r.). Era troppo matto, sarei andato su un altro tipo di allenatore».
E con Liedholm come andò?
«Molto bene, ma aveva solo un difetto: non gli bastavano mai i soldi. Ottenemmo il terzo posto nel 1975, ma avremmo potuto vincere il campionato. Eravamo partiti molto male, forse perché davamo fastidio a qualcuno».
De Sisti ha detto di esserle grato perché fu lei a riportarlo alla Roma nel 1974.
«Mi criticarono perché dicevano che era vecchio. Aveva 31 anni, ma la cosa più importante è che era romanista, era onesto e ha preso la squadra in mano trascinandola al terzo posto, la miglior soddisfazione della mia gestione».
Cosa ricorda di Roma-Inter del 17 dicembre 1972, quando i tifosi assediarono l’arbitro Michelotti e lei intervenne personalmente in campo per fermarli?
«Artemio Franchi, il presidente federale dell’epoca, spalleggiava troppo gli arbitri. Il martedì precedente alla partita organizzò una riunione con tutti i presidenti della Serie A, ma io, con Boniperti e un altro di cui non ricordo il nome, non andai per impegni di lavoro a Milano. Franchi se la prese a male dicendo che lo volevamo far decadere e mi mandò, per la gara con l’Inter, Michelotti che diede di matto concedendo un rigore inesistente al 90’ ai nerazzurri. L’Inter, all’epoca, era molto protetta, più della Juventus… Poi fischiò la fine della partita e uno scemo invase il terreno di gioco per aggredirlo. Ci fu il caos, io scesi subito in campo per assicurarmi che arbitro e guardalinee fossero al sicuro: i tifosi erano infuriati mentre la polizia sparava i lacrimogeni».
È vero che nascose Michelotti nella sua Mercedes per portarlo fuori dallo stadio Olimpico?
«Sì, feci liberare un ingresso secondario e uscii suonando il clacson per evitare che i tifosi ci fermassero. Presi l’autostrada e portai arbitro e guardalinee alla stazione di Firenze, ma quella partita mi rovinò facendomi perdere un bel po’ di soldi di incassi a causa della squalifica del campo che ricevette la Roma (tre giornate ridotte poi a due proprio per il comportamento virtuoso di Anzalone, n.d.r.)».
Michelotti le chiese mai scusa?
«No, o meglio sì. Ma otto anni dopo».
Tra i giocatori della sua Roma chi ricorda con maggiore piacere?
«Rocca sicuramente. È stato sfortunatissimo così come Peccenini, che per certi versi era anche superiore a Rocca. Si ruppero a distanza di quindici giorni. Erano due ragazzi bravissimi, in tutti i sensi: si capiva che non avevano voglia di fregarmi come invece hanno fatto altri. Anche Pruzzo ricordo con piacere anche se l’ho conosciuto soltanto per un anno».
Chi le stava antipatico? Ciccio Cordova?
«Ma sì, lo sanno tutti. Non mi piaceva e non mi piace ancora oggi. Non era sincero, faceva quello che gli pareva ed era il genero di Marchini. E tutti sapevano che Alvaro Marchini ce l’aveva con me».
Che ricordo ha del giovane Di Bartolomei?
(Anzalone si commuove, resta in silenzio per un po’, trattiene a stento le lacrime) «E’ stato il mio più grande dolore. Ho licenziato e venduto Cordova per tenere Di Bartolomei (nel 1976, n.d.r.). L’ho fatto nonostante una buona parte dei tifosi romanisti fossero ‘cordoviani’. Di Bartolomei mi è stato molto grato per questo».
Aveva capito che sarebbe stato un grande giocatore per la Roma?
«Io conoscevo Di Bartolomei sin da ragazzino, sapevo che era forte. Il merito degli scudetti Primavera di quell’epoca furono soprattutto suoi, non c’è dubbio».
Perché decise di vendere la Roma a Viola, nel 1979?
«Pur di cedere la Roma avrei accettato tutto, perché non ne potevo più. L’ultimo anno è stato terribile. Qualcuno che mi doveva essere grato mi ha tradito. Ricordo che perdemmo in casa con il Catanzaro (3-1 il 4 marzo 1979 con tripletta di Palanca, n.d.r.) e il giorno dopo, un giocatore del Catanzaro ex romanista mi chiese: ma i suoi calciatori giocano con gli altri? Non capivo più nulla, non avevo più certezze, non credevo più in nessuno. Mi domandavo perché un giocatore avesse tirato sbilenco invece di centrare la porta».
Anzalone preferisce non fare i nomi degli uomini che l’hanno tradito, ma di certo tanti giocatori della sua Roma figurano tra quelli squalificati per il calcioscommesse del 1980 (Stefano Pellegrini, Petrini, Cordova, Giorgio Morini, Negrisolo) e del 1986 (Chinellato). «Ma da quegli scandali si salvarono in tanti» conclude Anzalone, un presidente da molti considerato ingenuo. Ma forse, a guardar bene, era semplicemente onesto.
(intervista pubblicata da Romapost.it il 23 settembre 2014)